Dal 5 al 7 luglio, Papa Francesco visiterà il Sud Sudan, un territorio che secondo Monsignor Edward Hiiboro Kussala (vescovo della diocesi di Tombura-Yambio) vive in una pace relativa. La grande speranza è che la presenza del Pontefice in quei luoghi possa portare un concreto e duraturo messaggio di pace.
Perché effettivamente la “pace relativa” di cui parla Kussala è fatta sì di sporadiche violenze da quando il Sud Sudan ha ottenuto l’indipendenza dal Sudan nel 2011, ma anche di atroci attentati alla vita umana che includono decapitazioni e attacchi sessuali in specifiche aree del Paese, che soffrono di una maggiore instabilità.
La cronaca del Sud Sudan riporta che mentre alcune delle violenze sono comuni, con gruppi etnici rivali che si vendicano l’un l’altro in aree remote, le tensioni nella capitale Juba sono aumentate di recente dopo che il vicepresidente ha accusato il presidente di aver violato una fragile tregua. Come ho anticipato all’inizio, il Sud Sudan ha ottenuto l’indipendenza dal Sudan nel 2011, ma solo due anni dopo il Paese è precipitato in una guerra civile in cui sono state uccise decine di migliaia di persone. La guerra civile si è conclusa nel 2018 con un accordo di pace che ha riunito il presidente Salva Kiir e il vicepresidente Riek Machar in un governo di unità nazionale, anche se le relazioni tra le due parti rimangono tese.
Nel Sudan invece imperversano le proteste di strada. I manifestanti si ribellano contro i militari al potere, chiedendo l’attuazione di un governo civile.
La storia recente del Sudan ha visto la presa del potere da parte dell’esercito lo scorso ottobre, bloccando di fatto il percorso di transizione democratica che si era flebilmente avviato dopo mesi di rivolta popolare che portò alla rimozione Omar al-Bashir. Per uscire dall’instabilità, l’Onu, Unione africana e l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad), hanno proposto già dallo scorso marzo una serie di incontri tra i militari e le varie componenti della società civile, tra cui i movimenti che da mesi organizzano le manifestazioni contro il golpe militare di ottobre.
Da una parte però ci sono i movimenti pro-democrazia che sono convinti che questi colloqui non fanno altro che legittimare la giunta militare, dall’altra le formazioni vicine ai militari hanno espresso un netto rifiuto rispetto all’idea di dialogo. L’iniziativa è però stata accolta con favore dagli Stati Uniti, che da tempo promuovono l’organizzazione delle elezioni affinché si formi un governo non militare, bensì guidato dai civili. Dal buon esito dei colloqui, e quindi dalla possibilità che si possa arrivare a elezioni, dipende il sostegno finanziario americano al Paese africano.
L’America però non è l’unico Paese interessato alle sorti del Sudan, che da anni è anche al centro di alcuni investimenti nel settore agricolo da parte dei Paesi del Golfo, i quali hanno utilizzato la loro presenza anche in chiave di contenimento dell’influenza iraniana nel Paese. Teheran infatti, che negli anni ha sviluppato con il Sudan rapporti bilaterali in vari ambiti – soprattutto nel settore militare e degli armamenti – non rappresenta ad oggi un’influenza positiva per la stabilizzazione dell’area, in sintesi per due ordini di motivi: innanzitutto perché la stabilità minerebbe nel breve periodo i loro interessi e secondo perché non avrebbero alcun vantaggio nel rafforzare il quadro politico di un territorio che geograficamente è molto prossimo a Israele.
Non bisogna sottovalutare poi, che il Sudan – insieme a tanti altri Stati africani il cui approvvigionamento alimentare dipende dalle esportazioni di Russia e Ucraina – è tra i Paesi che stanno maggiormente soffrendo a causa della guerra in corso.
Tra il Sudan e il Sud Sudan inoltre, potrebbero riaccendersi le tensioni, perché è notizia di queste ore che il Sud Sudan invierà il suo esercito nella regione di Abyei dopo gli scontri etnici che hanno ucciso più di 40 persone. La regione, che è ricca di petrolio, confina con il Sudan, e difatti gli scontri etnici coinvolgono la comunità Ngok Dinka e quella araba Misseriya, proveniente dal Sudan e in cerca di pascolo. Queste due comunità non sono nuove alle controversie, anche perché avrebbe già dovuto esserci un referendum per stabilire lo status di Abyei, la quale continua a rimanere terra contesa, contribuendo a minare la già fragilissima stabilità dei Paesi coinvolti. Dai quali tra l’altro provengono moltissimi rifugiati, ad esempio nelle ultime ore si registrano numerosi arrivi dal Sudan, oltre che da Egitto, Marocco, Etiopia, Tunisia, Burkina Faso, Camerun, Eritrea, ecc.