È preoccupante il silenzio della politica nazionale sugli ultimi fatti rilevanti di politica estera, il dossier Taiwan in testa.

Ed è ugualmente drammatico che non una parola sia stata spesa sul Libano, almeno nel corso della giornata di ieri in occasione dell’anniversario dell’esplosione che ha devastato il porto di Beirut nel 2020, causando la morte di 224 persone e amplificando la perdurante crisi economica e finanziaria. Non è stato fatto alcun cenno sebbene proprio ieri, mentre era in corso la commemorazione del tragico evento, un secondo blocco composto da quattro silos danneggiati due anni fa sia crollato. Questo perché nelle passate settimane, a fronte delle elevate temperature e della fermentazione del grano che tuttora permane nei silos, sono divampati incendi che hanno ulteriormente danneggiato la struttura. 

E poi sempre sul fronte libanese, il rapporto Public Finance Review della Banca mondiale ha rilevato che il governo locale si è allontanato “in modo coerente e acuto” da una politica fiscale ordinata e disciplinata per servire gli interessi di una “economia politica radicata”. Sembrerebbe che una buona parte dei risparmi dei cittadini sia stata “spesa in modo improprio negli ultimi trenta anni”. Le banche hanno poi prestato ingenti somme allo Stato, che però ha accumulato enormi debiti soprattutto a causa di corruzione e malgoverno. 

Difatti gli ultimi dati diffusi dall’Agenzia per le statistiche del Libano indicano che l’inflazione ha raggiunto il 210% lo scorso giugno su base annua e si stima che il prodotto interno lordo reale sia diminuito del 10,5 per cento nel 2021, e inoltre quest’anno la Banca mondiale prevede che l’economia libanese si contrarrà di un altro 6,5 per cento. Nel frattempo il valore della lira libanese ha subito un crollo del 90%  sul mercato nero e il debito pubblico ha superato i 100 miliardi di dollari nel 2021, pari al 212 per cento del Pil. 

Uno scenario disastroso che avevo già delineato nei mesi scorsi nella mia risoluzione incardinata nella commissione Esteri e che purtroppo, al di là della sola ma rilevantissima audizione dell’ambasciatrice italiana in Libano, Nicoletta Bombardiere, non ha prodotto alcun risultato se non un decisivo arresto. Zero evoluzioni o seguito anche alla proposta che avanzai nell’ambito dei lavori della III commissione che, in congiunta con il gruppo difesa della Camera, era impegnata a settembre 2021 nell’approvazione di una modifica al decreto missioni – data la brusca conclusione della nostra presenza in Afghanistan – che proponeva di devolvere l’importo a bilancio della Farnesina in aiuti umanitari in risposta alla crisi afghana e per il sostegno alle popolazioni ospitate anche nei Paesi limitrofi. A favore del Libano e dei libanesi proposi in sintesi che una piccola parte delle risorse già destinate all’Afghanistan venissero indirizzate al Paese dei cedri. Mi è stato risposto dal Sottosegretario Della Vedova che “non si poteva fare”, che “non capivo” e che “per il Libano era già stato fatto molto”. È agli atti.

Lo voglio nuovamente sottolineare per ribadire come da parte dell’Italia ci sia un’allarmante noncuranza per le sorti del Libano, e in generale ora con la campagna elettorale, un dilagante disinteresse in materia di politica estera. 

Un indicatore di questo aspetto è l’assenza di un qualsivoglia pensiero pubblicamente espresso a livello nazionale su quello che rischia Taiwan, dove 68 caccia cinesi e 13 navi da guerra di Pechino hanno superato – secondo le ultime comunicazioni del ministro della Difesa di Taipei – la linea mediana che corre lungo lo Stretto di Taiwan, ovvero la linea di demarcazione non ufficiale, ma finora rispettata. L’inizio delle esercitazioni militari cinesi nello Stretto di Taiwan sembrerebbero essere una reazione alla visita a Taipei della speaker americana della Camera dei rappresentanti Nancy Pelosi. Queste azioni minacciose, per cui ieri ho chiesto pubblicamente un intervento corale, non sono assolutamente giustificate, a maggior ragione se si usa una visita istituzionale come pretesto per scatenare l’aggressività. 

Ecco quindi che arrivo al punto finale del mio ragionamento: è mai possibile che gli impegni legati alla campagna elettorale e gli accordi in corso per riposizionarsi nella nuova legislatura stiano catalizzando in maniera totale l’attenzione della politica nazionale da farci essere completamente assenti sulla scena internazionale, dove le crisi in corso sono molteplici e legate anche agli interessi italiani?

Lo chiedo – forse retoricamente – perché se c’è una cosa che ho imparato nella mia esperienza in III commissione è che la politica politica estera è tutto. Il nostro assetto economico e sociale è interdipendente dallo scenario internazionale, quindi chiudersi nuovamente entro i nostri confini e soprattutto perdere la credibilità e il ruolo costruito nel corso del Governo Draghi sarebbe dannoso anche in vista del prossimo futuro di politica interna.

Sono quindi convinta nell’affermare che, proprio a fronte di questa scarsissima lungimiranza e della mancata continuitá italiana nei tavoli internazionali, ho fatto la scelta giusta allontanandomi dal circo della campagna elettorale. La politica, quella vera, è altra cosa e si può fare anche fuori dai palazzi.