Ogni ricorrenza ha un suo precedente storico, oggi ad esempio è la Festa dell’Europa non solo perchè il 9 maggio di 72 anni fa il ministro degli Esteri francese, Robert Schuman, pronunciò il discorso che successivamente venne riconosciuto come fondativo dell’Unione europea.
Non bisogna dimenticare che la storia dell’Europa ha subito un passato dove il mondo era diviso in blocchi netti e contrapposti. Nell’odierno contesto sociale e politico, l’Europa che viene dalla discordia tra popoli e dalla violenza della guerra, ma che soprattutto è riuscita a trasformare l’azione aggressiva, l’interesse e il potere in valori di unione e solidarietà, non può permettersi di cadere nella provocazione di chi tenta di rispolverare il contrasto e la divisione, screditando tra l’altro anche l’alleanza atlantica, la quale invece ci ha permesso di essere maggiormente incisivi sugli eventi che hanno animato il Mediterraneo.
Come Italia abbiamo tratto profitto – in termini di credibilità internazionale – grazie a iniziative governative di grande spessore, che unitamente al lavoro promosso sul campo della diplomazia, ci hanno consentito di occupare un ruolo rilevante nello scacchiere geopolitico.
Via via però il quadro si è stato reso sempre meno organico, il livello qualitativo della nostra classe dirigente si è abbassato e il lento ma progressivo disimpegno degli Stati Uniti ci ha condotti all’interno di uno scenario di leadership deboli e logiche di schieramento liquide.
Una seria riflessione sulla sfida per il futuro del Continente non può non prendere atto di un’Europa ancora debole nei fatti, nonostante la grande accelerazione che la guerra in Ucraina ha impresso in alcuni ambiti, la difesa comune innanzitutto. È notizia di oggi ad esempio, che l’Ue si stia ancora scontrando sul sesto pacchetto di sanzioni alla Russia, su cui sono ancora forti le resistenze dell’Ungheria.
Dobbiamo continuare a lavorare per evitare frammentazioni e vuoti di potere ai nostri confini, intesi sia a livello nazionale che europeo. Per questo motivo continuo a promuovere il dialogo fra culture come condizione indispensabile per il raggiungimento della stabilità e di una pace vera, dunque di una crescita della società civile in un percorso di accettazione e riconoscimento reciproco. Questi non sono aspetti astratti perché se davvero l’Europa comprendesse l’importanza del dialogo tra culture, saprebbe sfruttarlo efficacemente in politica estera come valido elemento d’integrazione e inclusione. Intendo quindi che ogni singolo Stato membro possa essere effettivamente in grado di riconoscere il valore del confronto non solo come strumento per sciogliere le controversie, e che l’Europa possa interpretare il suo rafforzamento non solo in chiave di maggiore sicurezza.
Lavorare a una risposta confacente alle attuali esigenze significa anche allontanarsi da un vizio di fondo che molto spesso caratterizza la politica a tutti i livelli, ossia il far prevalere discorsi troppo generali e fintamente trasversali sulla considerazione della dimensione singolare della vita e della sua fragilità. Il dilagare della pandemia da Covid-19 e l’attuale guerra in Ucraina non hanno fatto altro che rendere più vividi alcuni punti deboli già esistenti in Europa, probabilmente hanno anche contribuito ad ampliare la mancanza di confronto sulle strategie di riforma, promuovendo la volatilità delle decisioni prese sempre e solo in maniera urgente.
Ecco perché bisognerebbe insistere a livello politico affinché l’Italia ritorni a promuovere e a far crescere un’assidua attività di governo in politica estera, affidata a un forte coordinamento dei vari corpi dello Stato coinvolti in maniera trans-disciplinare sui temi. D’altra parte beneficiamo ancora di validi punti di forza, quali la nostra residua credibilità internazionale, l’efficacia dell’attività militare e di cooperazione, il dinamismo delle nostre imprese e la potenza evocatrice del nostro modello culturale, tutti elementi capaci di farci proseguire in prima linea nel percorso sul futuro dell’Europa.