La parola “dimissioni” è l’arma che le opposizioni utilizzano per concentrare su di loro l’attenzione prima mediatica e poi dei cittadini. È uno strumento retorico, e in quanto retorico risulta debole, inevitabilmente destinato a morire nel dimenticatoio di una memoria storica assente in tutti, politici e cittadini. Non voglio quindi ragionare intorno a una parola che quasi mai si concretizza in azione, ma voglio riflettere sull’incapacità di essere chiari da subito, fedeli – attraverso un’operatività rapida ma ragionata – alla realtà.
Io non metto in dubbio la dinamica dei fatti ma mi rammarico per i tempi utilizzati, troppo diluiti rispetto all’urgenza che il caso richiedeva e merita tuttora. Utilizzare una comunicazione debole, prendere tempo e spazi in contesti inutili, rincorrere l’emergenza anziché prevenirla, porta a far resuscitare chi politicamente era finito, chi era relegato in basse percentuali di consenso d’opinione, prima che elettorale.
Al di là dell’opinione, i fatti restano: occorre adesso tutto l’impegno dello Stato per vigilare affinché i ristretti al 41 bis non abbiano la strada spianata verso la riorganizzazione e l’incremento dell’attività dei clan.
Troppo spesso facciamo errori di valutazione, sempre più frequentemente siamo impreparati davanti alla scaltrezza della vecchia politica, pensando che utilizzare la retorica del cambiamento e della bontà delle nostre azioni sia sufficiente.
Non lo è, non lo è più, non basta. Servono il merito, la competenza, umiltà e tanto approfondimento: solo così si ha la possibilità di onorare la fiducia e il mandato che i cittadini ci hanno conferito, senza doversi districare tra le baggianate che tanto piacciono alle opposizioni e a qualche media gossipparo.
La politica deve rispondere al Paese, è il cuore nevralgico di tutto ciò che si muove e sviluppa; se la politica è manchevole, il nostro percorso lo è, e forse per questo esprime l’urgenza di essere revisionato prima che sia tardi.